E’ morto Emiliano Mondonico, calcio in lutto

Aveva 71 anni ed era malato da tempo di tumore. Fece grande Toro e Atalanta. Memorabile la protesta per un rigore non assegnato nella finale di Coppa Uefa, poi persa. La figlia su Facebook: «Sei stato la nostra forza»

Lo diceva sempre: «Il mio miglior amico è il pallone». Emiliano Mondonico si è spento all’alba di giovedì 29 marzo a Milano, dove era ricoverato da alcuni giorni per il riacutizzarsi della malattia che lo tormentava da sette anni. 71 anni lo scorso 9 marzo, Mondonico resterà per sempre un simbolo del nostro calcio, amatissimo dagli sportivi. I funerali si celebreranno sabato alle 10 a Rivolta d’Adda, suo paese d’origine in provincia di Cremona. Non è prevista la camera ardente aperta al pubblico.

Giocatore prima, grande mister dopo, esperto sportivo da sempre. In veste di allenatore ha ottenuto cinque promozioni in serie A con Cremonese (1983-1984), Atalanta (1987-1988 e 1994-1995), Torino (1998-1999), e Fiorentina (2003-2004).
Proprio sotto la sua guida l’Atalanta visse la più bella esperienza in Europa, la Coppa delle Coppe 1987/88: i nerazzurri si spinsero fino alle semifinali contro il Malines. «Io sono stato allenatore 365 giorni all’anno, 24 ore al giorno – ci aveva raccontato -. Nel mio lavoro mi sono immerso in modo totale e le società che mi hanno avuto lo sanno bene: dal Toro all’Atalanta, al Napoli, alla Fiorentina e, da ultimo, anche all’AlbinoLeffe dove ho vissuto stagioni bellissime. Ho idealmente indossato le maglie delle squadre che ho allenato facendole diventare una seconda pelle. Qualche anno fa, al primo insorgere del male, mi sono fatto da parte spontaneamente, dicendo no anche a qualcuno che mi aveva cercato: avendo la testa anche su questo problema, non avrei potuto pensare totalmente al lavoro. E un allenatore al 70-80 per cento non può essere un buon allenatore».

Accanto a lui, da sempre Carla, fedele compagna di tutta la vita, le figlie Francesca e Clara, e i nipotini Lorenzo e Gaia. E poi il pallone, amico fedele: «Da quando ho cominciato a reggermi sulle gambe ho sempre avuto un pallone fra i piedi. Da bambino andavo alle elementari portandomi il pallone. I miei compagni andavano a scuola con la cartella, io col pallone. E appena tornato a casa, dopo pranzo, uscivo a dare calci al pallone sul prato dell’osteria che i miei gestivano a Rivolta. Papà allargava i tavoli e faceva spazio nel mezzo, poi si metteva in porta e io tiravo. Così fino a quando non veniva buio: soltanto allora mi ricordavo che c’era da fare anche i compiti. Il fondo di quel prato era tutto a gobbe e questo mi ha aiutato a prevedere, inseguire, domare il pallone che rimbalzava in modo irregolare da tutte le parti. I capricci del pallone sono stati fondamentali per formarmi la base tecnica individuale e aiutarmi a diventare calciatore» ci aveva raccontato ancora.

Noi lo vogliamo ricordare con quella sedia alzata al cielo, il 13 maggio 1992 ad Amsterdam, ma anche con gli stivaloni da campagna nella sua adorata cascina di Rivolta, dove coltivava la terra, allevava animali e, soprattutto, produceva salami la cui notorietà è diffusa in tutto il mondo del calcio. Lo immaginiamo seduto al suo tavolo di legno, in cascina, e con quei baffetti immancabili e il suo sorriso che partiva dagli occhi, sinceri. Sempre e comunque: nel raccontare lo sport e la sua vita.