La lettera choc: ‘Ho denunciato i mafiosi e li ho fatti condannare. Ma ora non ho più nulla e lo Stato mi ha abbandonato’

Apre un bar al Borgo vecchio di Palermo senza chiedere protezione alla mafia ed entra nel mirino di Cosa nostra, che lo intimidisce per imporgli il pizzo. Lui però non ha di che pagare, si ribella: denuncia gli estorsori, conferma le accuse davanti ai giudici e li fa condannare.

Sembrerebbe la conclusione e invece è solo l’inizio di una storia allucinante. Ne è protagonista suo malgrado un piccolo imprenditore siciliano, Daniele Ventura, che ha inviato a Business Insider Italia una lettera accorata. All’epoca dei fatti Daniele ha appena ventisette anni, è poco più che un ragazzo. Oggi è prossimo ai trentaquattro. E di questa storia sconvolgente e purtroppo non nuova per Palermo porta dentro di sé segni indelebili.

Daniele Ventura

Al Borgo vecchio, alle spalle del teatro Politeama, Daniele Ventura apre nel 2011 un locale dal nome esotico: New paradise, uno di quei locali dove i palermitani si accalcano all’ora del pranzo, che fa contemporaneamente da bar, tavola calda e ristorante. Gli affari partono in quarta, il bar è frequentato, la clientela aumenta, le cose non potrebbero andare meglio, finché non si scopre che il giovane imprenditore è andato a denunciare i mafiosi all’autorità giudiziaria. Da quel momento Daniele diventa una specie di appestato. Tutto ad un tratto i clienti lo abbandonano, gli abitanti e i commercianti del Borgo lo emarginano come se le regole mafiose dell’omertà, del rispetto e della sottomissione abbiano, nel tessuto sociale della città, un radicamento più profondo e più forte degli stessi mafiosi.

Questa storia Daniele ora la racconta in un libro, un volumetto appena uscito, semplice, di qualche decina di pagine, senza pretese letterarie né saggistiche, che ha il valore di una testimonianza civile.

Scrive: “Era il 2010 e io, ragazzo disoccupato, diplomato in ragioneria, dopo aver svolto diversi lavoretti e provato invano di entrare all’università … come molti giovani della mia età mi ritrovavo alla ricerca di un lavoro, ma la disoccupazione mi spinse verso il mio grande sogno: diventare imprenditore nella mia Palermo”.

Daniele cresce con il padre e la madre a Brancaccio, dove nel 1993 i fratelli Graviano ordinano l’omicidio di don Pino Puglisi, il parroco che si batte per sottrarre i bambini e i ragazzi del quartiere alla manovalanza mafiosa.

“Da piccolo non potevo scendere giù in strada a giocare con gli altri bambini, perché mentre noi, famiglia semplice, cattolica, vivevamo nella legalità, i nostri vicini avevamo uno o più parenti in galera o agli arresti domiciliari, e la situazione nei dintorni del palazzo dove abitavamo non era affatto tranquilla”.

Dopo il liceo non riesce ad iscriversi all’università. Matura così l’idea di una piccola intrapresa. Ottiene da Invitalia (braccio del ministero dell’Economia per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa) un finanziamento europeo di 98mila euro, parte a credito e parte a fondo perduto; altri 58mila euro li raccoglie in famiglia e dalla fidanzata. E nel 2011 apre questo locale su due livelli con quaranta posti a sedere e due begli affacci all’angolo tra via Principe di Scordia e via ammiraglio Gravina.

In questa immagine presa da Google Maps si vede ancora (nel cerchio) la vecchia insegna del New Paradise nel locale all’angolo tra via Principe di Scordia e via Ammiraglio Gravina, nel Borgo Vecchio di Palermo. Google

Tutto fila liscio fino al giorno in cui alcuni loschi figuri che risulteranno legati all’organizzazione criminale non gli piombano nel bar: “Purtroppo Cosa nostra stava bussando alla mia porta… Mi affidai alla giustizia e cominciai a raccontare ai Carabinieri ciò che mi era accaduto … Riconobbi i due che mi avevano minacciato e quello a cui avevo pagato il pizzo … mi dissero che le mie denunce erano fondamentali per fare pulizia ed estinguere il mandamento mafioso di Porta nuova”.

La paura, il terrore che la sua famiglia possa subire ritorsioni, lo gettano nello sconforto più cupo. Ma gli inquirenti lo tranquillizzano: gli assicurano “che da lì a poco avrebbero fatto una retata arrestando i responsabili” e che il suo nome “non sarebbe stato fatto circolare … Pochi giorni dopo arrivai al locale di prima mattina e i commercianti della zona mi dissero che avevano saputo delle mie denunce dagli organi di stampa, … che avevo fatto male a denunciare”.

La notizia dell’operazione Hybris, così denominata dalla Direzione distrettuale antimafia, era divenuta di pubblico dominio. E negli articoli dei giornali e nei servizi televisivi, anche se il nome di Daniele non compariva, compariva quello del locale. Piuttosto che la solidarietà, il ragazzo sperimenta e subisce l’ostracismo del quartiere: “ … i commercianti della zona mi dissero che avevano saputo delle mie denunce dagli organi di stampa e che nella notte erano state arrestate trentanove persone tra esecutori e mandanti”.

Nonostante tutto Daniele non ritratta, porta avanti le accuse fino al processo sottoponendosi al faccia a faccia con gli estorsori. Nel frattempo “i clienti che mi ero fatto preferivano frequentare altri locali e camminavano sul marciapiede di fronte, non volevano neanche passare dallo stesso lato del bar”. Non c’è più denaro per l’affitto, per l’elettricità, per l’acqua.

Dopo essere riuscito a scampare al taglieggiamento mafioso, Daniele è di fatto strangolato da un contesto sociale e economico connivente: “All’improvviso mi trovai costretto a fare un secondo lavoro per poter pagare i dipendenti, i sabato sera iniziarono a essere deserti, i catering svanirono e le feste di compleanno scemarono … La banca mi chiuse il conto e mi ritirò il libretto degli assegni: ormai ero assediato … Tenni duro, ma un giorno trovai i lucchetti di entrambe le saracinesche del locale danneggiati ed era impossibile aprirli: un chiaro segnale che io lì non ci dovevo più stare … Dissi basta e il 30 giugno 2012 chiusi l’attività, cercando di fare il possibile per risanare i debiti … Cominciai a fare qualsiasi lavoretto in nero”.

Ad assisterlo durante il processo sono gli avvocati di Addiopizzo. I legali del movimento per la lotta contro il racket azionano attraverso la Consap (la Spa concessionaria dei servizi assicurativi pubblici) il fondo di solidarietà per le vittime dei reati di mafia, che gli eroga 30mila euro. Non riescono invece a fargli avere i 20mila euro di risarcimento del danno che il giudice gli ha riconosciuto (in via provvisionale) con la sentenza di primo grado e che dovrebbe versargli la stessa Consap. Sarà un servizio di denuncia di Stefania Petyx per “Striscia la notizia” a sbloccare l’intoppo burocratico.

Daniele utilizza questi soldi per alleggerire i debiti, ma il problema grave, adesso che ha moglie e un figlio di tre anni a carico, è la perdita del lavoro come conseguenza sociale della collaborazione con i magistrati.

La gente da uno che denuncia non ci va – scrive nella lettera a Business Insider Italia – ed è dalla metà del 2013 che non so come andare avanti. Sono disperato, mi sento abbandonato. Denunciare la mafia non mi è convenuto, mi è stata tolta la dignità e la speranza”.

Questa è la parte più triste e penosa del racconto. Per ritrovare il lavoro perduto Daniele crede di poter contare sui rappresentanti delle istituzioni e sulle alte cariche dello Stato, ma il risultato è sconfortante. Come ci racconta nel corso di una lunga telefonata, la presidenza della Regione siciliana dell’era Crocetta lo rinvia al sindaco di Palermo Leoluca Orlando, che si limita a riceverlo; con l’attuale governatore, Nello Musumeci, ex presidente della Commissione regionale antimafia, dopo un contatto via Messenger e varie mail e raccomandate non riesce nemmeno a parlare; la presidenza della Repubblica lo rimanda alla Procura di Palermo; la presidente della Camera Laura Boldrini lo cerca per un generico messaggio di solidarietà dopo la messa in onda del servizio di Stefania Petyx; e la presidenza del Consiglio (Matteo Renzi capo del governo) lo indirizza ad Addiopizzo come se un’associazione antimafia fosse un’agenzia di collocamento.

Le conclusioni sono disperate, di un pessimismo apparentemente senza scampo:

Non mi posso fidare di questo Stato, oggi mi vergogno di essere italiano e siciliano, mi vergogno di dover vivere con le mie paure e di essere inseguito da debiti maturati non per colpa mia, mi vergogno di essere disoccupato nonostante un lavoro me lo sia creato, un lavoro che prima delle mie denunce stavo riuscendo a far decollare. Mi vergogno di dover fare qualsiasi lavoro in nero mi capiti … Oggi mi chiedo solamente da che parte stia lo Stato, se dalla parte di chi denuncia la mafia oppure dalla parte dei mafiosi … Voglio continuare a lottare perché sarebbe troppo facile e da codardi dire ‘basta’, e darei solamente una soddisfazione in più a uno Stato assente e complice”.