Mentre nella città partenopea qualcuno si affanna ad osannare Salvini – dunque – Lombardia e Veneto si preparano ad attuare la cosiddetta autonomia differenziata tra governo e Regioni; una manovra che gli consentirà di trattenere sul territorio ben 35 miliardi di residuo fiscale che saranno depennati dalla spesa pubblica destinata alle politiche sociali del Sud. Ma se in un’area del Paese si produce di più – direte voi – non è forse giusto trattenere sul territorio quel differenziale tra tasse versate e servizi ricevuti? Domanda semplicistica, vi rispondiamo. La disomogeneità strutturale e infrastrutturale italiana e le iniquità tra i redditi delle sue macro aree sono l’elemento chiave per comprendere a fondo le rivendicazioni meridionaliste. Un recente studio de Il Sole 24 Ore, ad esempio, afferma che i 3/4 dei big dell’industria italiana si concentra in sole quattro Regioni: Lombardia, (37,6% delle imprese), Lazio (20,2%), Veneto (9,3%) ed Emilia Romagna (8,9%). Se poi si aggiungono Piemonte (7,4%) e Toscana (5,4%) si arriva a coprire il 90% dello Stivale. Le altre 14 regioni valgono il restante 10% e il Sud – naturalmente – è il fanalino di coda.
Lo studio, effettuato in collaborazione con il Crif, stabilisce che l’83,3% delle aziende che fatturano più di un miliardo di euro è localizzato nel Centro-Nord (ben oltre il 50% ha sede legale in sole tre Regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – Regioni che riceveranno presto maggiore autonomia fiscale). Le conseguenze di questo corposo sbilanciamento economico determinano una maggiore capacità fiscale del Nord, frutto delle tasse versate dai colossi industriali – che vanno a gonfiare i bilanci delle Regioni di appartenenza – e del peso specifico dei singoli redditi, di gran lunga superiori a quelli dei cittadini del Sud (il reddito pro capite in Lombardia è pari a 36.600 euro mentre in Calabria la media è di 16.800 euro).