Di casi come Cucchi ce ne sono a decine in Italia. Non dobbiamo dimenticarli.

Quando una persona muore nelle carceri italiane, o durante le fasi di fermo da parte delle forze dell’ordine, le certezze sono due: primo, rimarranno per lungo tempo diverse ombre sulle circostanze che hanno portato al decesso; secondo, quest’ultimo verrà risolto, nella maggior parte dei casi, con la formula standard della “morte per cause naturali”.

Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva. Sono tra i casi di persone morte nelle mani dello Stato che probabilmente hanno avuto maggiore eco mediatica negli ultimi 15 anni. Questo è avvenuto non tanto per l’assurdità delle circostanze della loro morte, né solo per la volontà delle istituzioni di mantenere i riflettori accesi sulle rispettive vicende. Un ruolo determinante lo ha avuto la strenua ricerca di verità portata avanti dai familiari, tra raccolta firme, creazione di associazioni, rilascio di interviste e altre iniziative popolari.

Ilaria Cucchi è diventata un simbolo nella lotta agli abusi di Stato, perché ha fatto emergere un tema che per lungo tempo era rimasto nascosto come polvere sotto al tappeto. Ha lottato contro le incongruenze nella ricostruzione dei fatti di quel maledetto ottobre del 2009, ma anche contro un vergognoso esercito di hater che l’ha accusata di speculare sulla morte del fratello.

Ilaria ha dovuto poi affrontare le istituzioni. Carlo Giovanardi, che ha già emesso la sua sentenza – “Stefano Cucchi è morto per droga” – ma anche l’attuale ministro dell’Interno Matteo Salvini, che ha dichiarato di essere schifato dalla donna, invitandola a vergognarsi delle sue battaglie, e che ancora oggi, dopo la confessione dell’agente Tedesco, non è stato in grado di chiedere scusa. Ilaria ha poi dovuto sopportare le prese di posizione del sindacato della polizia, in quel festival dell’omertà e del non rispetto che ha dimostrato quanto in basso si può cadere. “Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie,” ha detto Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap e oggi parlamentare della Lega. Nonostante tutto questo, la sorella di Stefano non ha mai mollato, neanche quando, nel 2014, gli agenti coinvolti sono stati tutti assolti in Appello.

Come Ilaria Cucchi, anche la famiglia Aldrovandi non si è mai arresa nella battaglia volta a ottenere piena chiarezza sulle circostanze della morte di Federico. Dopo la condanna degli agenti, la madre Patrizia Moretti ha continuato a farsi sentire, non solo per Federico, ma anche per tutte le altre persone morte in carcere, nelle mani dello Stato. Sono passati dieci anni, ma Rita Uva, sorella di Giuseppe, non ha intenzione di mollare e farà di tutto perché venga individuato il colpevole di quelle quelle ferite sul corpo del fratello.

Sono storie di attivismo familiare, di ricerca disperata di giustizia, di sensibilizzazione su un tema tanto pericoloso quanto troppo spesso taciuto, quello delle morti di Stato. In mezzo a queste storie più note, però, ce ne sono molte altre di cui probabilmente non si è mai sentito parlare, o che comunque non hanno avuto l’attenzione che meritavano. Storie di omissioni, incongruenze e presunte violenze, che svelano un panorama italiano fatto di tanti Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva. Per lo Stato, storie di morti “per cause naturali”.

Aldo Bianzino è morto in carcere per “cause naturali”. Un aneurisma, secondo quanto stabilito dalla giustizia italiana. Una mattina del 2007, alcuni poliziotti fanno irruzione nella loro casa per un’operazione antidroga. Viene trovata qualche pianta di cannabis e delle foglie lasciate a essiccare. Aldo viene portato in commissariato, insieme alla compagna. Morirà in una cella di isolamento del carcere di Perugia 48 ore dopo. Come sottolinea Annalisa Camilli su Internazionale, Rudra Bianzino “Pensa che il padre sia stato lasciato morire da solo ‘come un cane’, ma è ancora più convinto che a ucciderlo non sia stata un’emorragia subaracnoidea spontanea.” La prima perizia fatta sul corpo dell’uomo aveva infatti rilevato ematomi cerebrali e danni al fegato, definiti incompatibili con quel solito marchio di “morte per cause naturali” con cui è stata archiviata la questione. “L’ipotesi del medico, all’epoca, fu quella di un pestaggio fatto con tecniche militari usate per danneggiare gli organi vitali senza lasciare tracce,” scrive Camilli, “ma la procura non accolse questa ricostruzione e archiviò l’indagine per omicidio.” Oggi Rudra continua la sua battaglia per la verità, chiede a gran voce che venga creata un’apposita commissione d’indagine parlamentare sulle morti avvenute per abusi delle forze dell’ordine, e lavora a stretto contatto con l’Associazione contro gli abusi in divisa (Acad).

Niki Aprile Gatti, 26 anni, viene arrestato il 19 giugno 2008 con l’accusa di frode informatica. Lo portano nel carcere di Firenze, dove rimarrà per quattro giorni in cella d’isolamento. Il 24 giugno viene trovato morto. Un suicidio, dicono. Ma con il passare del tempo emergono numerose contraddizioni nella ricostruzione delle circostanze del decesso. L’orario della morte, gli strumenti utilizzati per togliersi la vita, le testimonianze degli agenti penitenziari e dei vicini di cella. L’associazione A Buon Diritto ha raccolto molte incongruenze e, assieme alla madre del ragazzo, da anni chiede la riapertura delle indagini, affinché possano essere chiarite le ombre sulla morte del ragazzo.

Stefano Brunetti, 43 anni, viene arrestato ad Anzio l’8 settembre del 2008, durante un tentativo di furto. Muore il giorno successivo in ospedale, per “cause naturali”. Eppure, secondo l’autopsia, il decesso avviene per emorragia. L’uomo ha la milza perforata, tumefazioni sulle braccia e sul torace, e due costole rotte. In quelle poche ore tra l’arresto e il decesso in ospedale, Stefano lamenta di essere stato picchiato durante l’interrogatorio. I poliziotti che lo avevano in custodia vengono assolti in tutti i gradi di giudizio, sebbene la corte d’Appello avesse chiesto per loro dieci anni di carcere. La sentenza è che Stefano si sarebbe fatto male da solo, in un atto di autolesionismo, fino a rompersi le costole e spappolarsi la milza. Restano tante ombre su quel caso e oggi la famiglia continua a cercare la verità, tramite un osservatorio apposito.

Serena Mollicone, 18 anni, scompare il primo giugno 2001, ad Arce, e viene ritrovata in un bosco con un sacchetto di plastica sulla testa, mani e piedi legati con scotch e fil di ferro e una ferita vicino all’occhio. La bocca è coperta da un nastro che le avrebbe causato la morte per asfissia. Dell’omicidio viene accusato prima un carrozziere, poi delle donne polacche, poi un parente. Intanto gli anni passano, un carabiniere informato sui fatti si suicida in circostanze sospette e il corpo di Serena viene riesumato più volte per nuovi rilievi. Lo scorso settembre, 17 anni dopo il decesso, la perizia del Ris conferma che la ragazza è stata uccisa nella caserma dei Carabinieri. Quello di Serena diviene così un altro, ennesimo, omicidio di Stato, con tre agenti indagati per omicidio volontario e occultamento di cadavere.

Riccardo Rasman, 30 anni, muore il 27 ottobre 2006 nel suo appartamento a Trieste: ammanettato a terra, le caviglie legate da un fil di ferro, gli agenti sopra di lui, il cranio sfondato, i muri pieni di sangue. Dicono sia morto per cause naturali, un arresto respiratorio. In realtà gli agenti verranno condannati a sei mesi per omicidio colposo, perché, secondo il pm, non potevano sapere che le loro azioni avrebbero avuto conseguenze mortali sul ragazzo.

Marcello Lonzi, 29 anni, muore nel 2003 nel carcere di Livorno. Si parla di suicidio, poi di infarto, poi di collasso cardiaco, fino alla proverbiale caduta dalle scale. In obitorio il corpo è pieno di sangue, i denti sono rotti, il volto gonfio, la pelle tagliata, le costole spezzate. Le perizie sul corpo smentiscono quelle fatte in un primo momento, che davano un quadro meno grave delle condizioni dell’uomo al momento del ritrovamento. Testimoni in carcere raccontano versioni differenti rispetto a quelle della polizia penitenziaria. Eppure il caso viene archiviato nel 2015. La madre e diverse associazioni continuano a chiedere di fare luce sulle cause che hanno ridotto il corpo di Marcello in quel modo. Per lo Stato, anche in questo caso, si è trattato di “morte naturale”.

La lista delle persone morte in circostanze sospette è ben più ampia: Michele Ferrulli, Riccardo Magherini, Carmelo Castro, Simone La Penna, Cristian de Cupis, Manuel Eliantonio e tante altre vittime per cui è necessario ottenere piena verità.

“Nei casi di tortura e di violenze istituzionali, nel nostro Paese, perseguire i responsabili è operazione tragicamente impossibile. Mancano le norme come il reato di tortura e manca una cultura pubblica di rispetto profondo della dignità umana,” dichiarava nel 2014 Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Nell’estate del 2017 una legge sul reato di tortura è stata introdotta: prevede dai 4 ai 10 anni di carcere per i responsabili, che salgono fino a 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. Il testo è stato però snaturato rispetto a quello originale, presentato dal senatore Pd Luigi Manconi nel 2013. Lo stesso Manconi si è astenuto nella votazione in Senato: “Le modifiche approvate lasciano ampi spazi discrezionali perché, ad esempio, il singolo atto di violenza brutale di un pubblico ufficiale su un arrestato potrebbe non essere punito,” ha spiegato. Il testo stabilisce poi che il fatto deve essere “commesso mediante più condotte,“ limitando di fatto la tortura a una pluralità di azioni. A ulteriore tutela delle forze di polizia, viene confermata l’esclusione dalla normativa di una legge che preveda pene anche per tutte le sofferenze risultanti dalla privazione dei diritti da parte di pubblici ufficiali.

La legge ha scontentato un po’ tutti. Antigone e Amnesty International, che trovano troppo limitante il modo in cui viene definito il reato e lamentano un eccesso di tutele per chi potrebbe macchiarsene. Anche i sindacati di polizia se la sono presa, ma per i motivi opposti. In particolare, contestano le “Pene elevatissime per i pubblici ufficiali che dovessero incorrere in una delle fattispecie di questo reato.” Anche una certa politica deve esserne uscita delusa, quella rappresentata da Matteo Salvini, che nel 2015 scriveva frasi come “No al reato di tortura, polizia deve fare il suo lavoro,” o da Giorgia Meloni, che a luglio scorso sottolineava che “Il reato di tortura impedisce alla Polizia di lavorare.” Qualcuno dovrebbe fargli notare che i pestaggi non rientrano nel mansionario di Polizia e Carabinieri.

Con colpevole ritardo, comunque, l’Italia si è dotata di una legge sul tema. Una manciata di norme ancora insufficiente, ma che costituisce un primo passo importante per perseguire quello che fino a oggi è stato chiamato “morte naturale”, o al massimo “omicidio colposo”. C’è da andare avanti, lavorando in parallelo sulla costruzione di una cultura della giustizia istituzionale, che combatta l’omertà, la falsificazione delle prove, la fiducia incondizionata nello Stato anche davanti all’evidenza dei fatti. Ha detto bene Carlo Lucarelli, durante un’intervista a Propaganda Live qualche settimana fa: “Quando tu sei nelle mani dello Stato, esso ha la responsabilità di quello che ti succede. Tu devi essere custodito dallo Stato, che significa che non solo non devi scappare, ma anche che non ti deve succedere niente di male. Quando una persona muore nelle mani dello Stato, vuol dire che c’è un problema.”

Le piazze e i cinema gremiti delle ultime settimane per la proiezione del film Sulla mia pelle, gli striscioni negli stadi, le canzoni, le dediche, le prese di posizione a ogni latitudine, l’attivismo della società civile sono un urlo sempre più forte affinché si faccia luce su questo problema. Una violenza istituzionale che esiste, ma che in troppi vogliono nascondere.