Di Maio ha un paio di problemi: l’Ilva e Beppe Grillo

Un nuovo governo, quando si insedia, trova in eredità svariate problematiche da affrontare. In Italia, da anni, una delle più ingenti è un colosso di quindici milioni di metri quadrati: l’Ilva di Taranto. Grande quasi il triplo della città che la ospita, l’Ilva è il paradigma del pressapochismo all’italiana, la patata bollente che la politica si passa di mano in mano in un continuo scarica barile. Non è ancora chiaro il piano che il governo Conte attuerà: Di Maio e colleghi, nelle prime dichiarazioni, hanno risposto in maniera non esaustiva e in contrasto tra loro. Sul contratto di governo l’Ilva viene liquidata con poche frasi: si accenna a “un programma di riconversione economica basato sulla progressiva chiusura delle fonti inquinanti.” Il silenzio sull’argomento inizia ad ammantarsi di mistero. Presentandosi alle Camere, Conte ha toccato numerosi temi. Ma non ha mai pronunciato la parola Ilva.

Le opzioni per il futuro dell’Ilva, senza girarci intorno, sono due: continuare a produrre, possibilmente apportando ragguardevoli modifiche per tutelare l’ambiente, i lavoratori e i cittadini; oppure chiudere, smantellare, bonificare e garantire ai circa 14mila lavoratori le giuste garanzie economiche. Carlo Calenda, predecessore di Di Maio come ministro dello Sviluppo economico, rigetta l’ultima opzione, caldeggiata invece dal governatore pugliese Michele Emiliano, che si allinea – e non è la prima volta –  alla corrente grillina e dichiara che “la strada di una totale riconversione del sito non è impossibile”. Calenda ha prontamente replicato, stizzito: “Emiliano e M5S chiedono la chiusura del più grande impianto industriale del Sud Italia. Da una Repubblica fondata sul lavoro a una fondata sui redditi inventati.”

Calenda ha vissuto in prima persona i delicati negoziati con acquirenti e sindacati. Dopo il disastroso epilogo giudiziario della famiglia Riva, l’Ilva passerà nelle mani dell’azienda leader nel settore dell’acciaio, l’ArcelorMittal. Guidata dal multimiliardario indiano Lakshmi Mittal, l’azienda ha un fatturato di oltre 50 miliardi di euro e produce 114 milioni di tonnellate d’acciaio l’anno. La proposta di ArcelorMittal, dopo un lungo negoziato con Calenda, è stata quella di assumere 10mila lavoratori a tempo indeterminato, più altri 1.500 affidati a Invitalia. I lavoratori che ruotano attorno all’Ilva sono però circa 13.800, e i sindacati (Fiom, Fim, Uilm e Usb) hanno tuonato contro la proposta, pretendendo la riassunzione dell’intero organico. Nel frattempo il nuovo governo si è insediato e Calenda è stato costretto a interrompere il negoziato, che riprenderà con il nuovo tavolo a tre: Di Maio, i sindacati e la delegazione di ArcelorMittal. Il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, si dichiara contrario alla chiusura e auspica che “si vada avanti e che si realizzi un investimento che ha attratto investitori internazionali. Da lì può ripartire la questione meridionale, attraverso l’equilibrio tra occupazione, sviluppo e rispetto totale dell’ambiente.” Sulla posizione del nuovo governo a riguardo, per il momento, si è capito poco.

Lorenzo Fioramonti, deputato M5S e consulente economico di Di Maio, ha esposto il suo ultimatum, dichiarando che “Se a luglio non ci fosse un accordo tra acquirente e sindacati cercheremmo un’altra soluzione. Lavoreremo perché nessuno perda il posto di lavoro, li metteremo a fare altre cose, a partire dalle bonifiche.” Il rischio è quello di trovarsi impantanati in una Bagnoli bis: anche in quel caso furono proposte bonifiche e riconversione dell’occupazione, ma circa trent’anni dopo la chiusura dell’impianto, le promesse non sono state mantenute.

Come su altri temi, anche sull’Ilva Lega e M5S hanno visioni diverse. L’omologo leghista di Fioramonti, Armando Siri, consigliere economico di Matteo Salvini, è contrario alla chiusura. Parla di un “piano per adeguare gli standard di sicurezza ambientale,” ma rivendica l’importanza dell’Ilva nel panorama industriale italiano, facendo cenno a “nuove tecnologie che consentano di scongiurare la chiusura, assicurando e salvaguardando i tanti posti di lavoro e le nostre quote nell’acciaio.” Dal lato dei Pentastellati, l’ultimo a dire la propria in merito alla vicenda è stato Beppe Grillo, attraverso un videomessaggio sul suo blog, che con l’ennesimo ribaltone ha a sua volta smentito le voci di una possibile chiusura. “Nessuno ha mai pensato di chiuderla,” afferma nel video, smentendo il suo stesso partito e quanto è stato scritto sul programma di governo. Il garante del M5S suggerisce di usare fondi europei (2,2 miliardi di euro per le imprese di carbone e acciaio) per creare una realtà simile al bacino della Ruhr in Germania. Ma non ha convinto Calenda, che ha subito replicato: “Ho visto il video di Grillo dove, da una terrazza sul mare in stile Grande Gatsby, delirava su riconversione in parco giochi della prima acciaieria europea, e mi sono venuti i brividi.”

Prima di negoziare con acquirenti e sindacati, Salvini e Di Maio dovrebbero fare chiarezza tra loro e presentare agli italiani un piano congiunto, con buona pace di Conte. Per il momento ognuno ha dato una versione differente e mostrarsi incerti rappresenta un sintomo di debolezza agli occhi del Paese e dell’intera comunità europea, che si è prodigata per definire i paletti dell’acquisizione di ArcelorMittal.

La questione non riguarda solo il numero esorbitante di lavoratori, e il rischio di lasciare migliaia di famiglie sul lastrico: l’Ilva di Taranto è a tutti gli effetti lo stabilimento della morte. Poche settimane fa Angelo Fuggiano, operaio ventottenne, marito e padre di due figli, è morto a causa del crollo di un cavo d’acciaio da una gru, ma non si tratta solo di fatali incidenti sul lavoro. A Taranto il tasso di mortalità – per tumori, problemi cardiovascolari e altre patologie – è ben oltre la media nazionale, e addirittura superiore a “zone rosse” come la Terra dei Fuochi in Campania. Rispetto alle altre zone della Puglia, la mortalità infantile è più alta del 21%. Durante i giorni ventosi vengono chiuse le scuole, viene impedito di giocare all’aperto e le finestre rimangono sigillate, per proteggersi dalle sostanze tossiche prodotte dallo stabilimento: nell’aria di Taranto è stata rilevata la presenza massiccia di metalli pesanti ad alta tossicità, come l’arsenico, o altri che superano altamente la soglia prevista – piombo, nichel, molibdeno, rame, selenio, vanadio, zinco e platino – insieme a livelli di Pm10 che superano i 50 millesimi di grammo per metro cubo. Il diossido di azoto, presente in alcune sostanze gassose rilasciate dagli stabilimenti, causa problemi polmonari anche mesi dopo l’esposizione. Il diossido di zolfo, invece, oltre all’apparato respiratorio, colpisce anche gli occhi. Altre sostanze sono altamente cancerogene, comprese le diossine, di cui è stata accertata la presenza nell’aria. I più colpiti sono i quartieri Tamburi e Borgo, adiacenti alle ciminiere, in cui il tasso di mortalità quadruplica rispetto al resto della città.

Adesso l’onere tocca al Di Maio ministro del Lavoro, che dovrà impegnarsi per non ridurre la vicenda a mezzo di propaganda o a retorica spicciola. Semplici promesse – miracolose bonifiche, redditi per tutti i lavoratori, Taranto capitale dell’aria pulita – servirebbero a poco: vanno coinvolte figure in grado di proporre un progetto solido, che non calpestino la dignità dei lavoratori e di un’intera città – siano miliardari indiani, carneadi d’ignota provenienza o piccoli imprenditori del territorio, poco importa. Il responsabile del dicastero del Lavoro, però, deve cominciare proprio da qui, dal lavoro che uccide.