Il segreto delle vittorie Repubblicane nelle elezioni americane

Nel 2016 la vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane contro Hillary Clinton ha sbalordito quasi tutti gli analisti e i commentatori politici. Nonostante la vittoria del voto popolare da parte della candidata democratica, il sistema di elezione indiretto chiamato gergalmente “collegio elettorale” ha permesso che Donald Trump prevalesse per 306 voti contro i 232 della sua avversaria. A stupire, invece, è che questo avvenga, da anni, nei distretti elettorali nazionali della Camera dei Rappresentanti disegnati dai governatori repubblicani. Immaginiamo uno Stato formato da cinquanta contee, 30 in cui prevalgano i democratici e 20 in cui invece vincano i repubblicani: la vittoria, per questi ultimi, sembrerebbe impossibile. E invece basta lavorare di cartografia e fantasia; basta formare due collegi composti da nove contee democratiche e una repubblicana e tre distretti composti da sei contee repubblicane e quattro democratiche. E non porsi limiti di fantasia nella forma che hanno i collegi. Questo è proprio ciò che ha fatto il governatore del Wisconsin, Scott Walker, nel ridisegnare i collegi nel suo stato nel 2011. E i risultati sono arrivati nel momento del bisogno: l’8 novembre 2016 sono stati eletti soltanto tre deputati democratici su otto. E tutto nonostante in quell’occasione i democratici abbiano sfiorato il 50% dei consensi, lasciando i repubblicani a cinque punti di distanza. Un gioco di prestigio istituzionale che prende il nome di gerrymandering.

 

La parola risale al 26 marzo 1812, data nella quale venne pubblicato un articolo sulla Boston Gazette che criticava il governatore del Massachusetts Elbridge Gerry e la sua nuova mappa dei distretti del Senato statale, da lui rielaborata in favore del partito del governatore democratico-repubblicano, in quell’epoca dominante a livello federale. Nella vignetta allegata all’articolo veniva raffigurato un distretto a nord di Boston come un grande dragone alato, una mitologica salamandra, la salamandra di Gerry, da cui il termine gerrymander. Nonostante le critiche, la fantasiosa abilità del governatore pagò dal punto di vista strettamente politico: Gerry venne scelto quale candidato alla vicepresidenza dal presidente James Madison, in corsa per un secondo mandato. Il governatore venne eletto, ma la sua permanenza su quella poltrona durò poco: morì il 23 novembre 1814 dopo una breve malattia. Ma la sua geniale idea di manipolare i distretti e i collegi a favore del partito dominante non morì con lui, anzi.

Dopo ogni censimento nazionale della popolazione, che avviene ogni dieci anni a partire dal 1790, la prassi costituzionale americana richiede che vengano aggiornate le mappe congressuali per far fronte alle variazioni della densità abitativa. Negli anni dell’espansione a Ovest durante la seconda metà dell’Ottocento, i repubblicani, divenuti il nuovo partito dominante, cercarono di creare degli stati il più in fretta possibile per guadagnare anche un solo deputato in più rispetto agli avversari democratici, rimasti maggioritari negli stati del Sud. In un caso, uno stato venne ammesso anche durante la Guerra Civile, il Nevada, per garantire al presidente Abraham Lincoln quei tre voti elettorali in più nel 1864 e salvare la guerra da un compromesso umiliante con i confederati sudisti. L’aggiunta di nuovi stati (esclusi Alaska e Hawaii, che però si trovano fuori dal blocco continentale) si arrestò con l’ammissione dell’Arizona nel 1912 e il numero dei deputati totali venne fissato a 435. Tutti i partiti di governo nei singoli Stati, democratici o repubblicani, cercarono di disegnare mappe a proprio vantaggio, senza temere di creare distretti da un milione o da poche migliaia di persone. E del resto, all’epoca, le distinzioni ideologiche al loro interno erano molto più labili: i repubblicani avevano tra i propri ranghi sia un’ala conservatrice favorevole agli interessi dei grandi gruppi industriali e delle élite anglosassoni del New England, sia una progressista e riformatrice; mentre i democratici registravano una divisione su base geografica: a Nord erano sostenuti da una coalizione di operai, sindacalisti e minoranze etniche e avevano i loro punti di forza nelle grandi città industriali, mentre al Sud erano la fazione dei bianchi razzisti, tanto da autodefinirsi senza troppe ipocrisie “il partito dell’uomo bianco”. Per anni i repubblicani, veri vincitori della guerra civile, poterono definirsi il gruppo di maggioranza “naturale” del Paese. Ma con la Grande depressione il consenso da loro costruito in anni di governo indisturbato (o quasi) andò in fumo, sull’onda del malcontento causato dalle loro politiche favorevoli alle classi più elevate e dell’entusiasmo scaturito dalle riforme keynesiane del New Deal, lanciato dal presidente Franklin Delano Roosevelt per contrastare gli effetti della Grande depressione. Insieme a una grande campagna mediatica contro le riforme, sostenuta dai gruppi industriali, cominciarono a fare l’unica cosa in grado di limitare l’avanzata delle nuove e pericolose idee di FDR: escludere alcuni gruppi sociali dal voto. Lo stato in cui poterono sperimentare questa tecnica fu la California, una delle loro poche roccaforti.

Nonostante il numero degli iscritti al Partito Democratico fosse in costante crescita, i repubblicani mantennero una presa ferrea sul Paese fin dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nel 1954 i democratici erano il doppio dei repubblicani, ma riuscirono a eleggere solo il procuratore generale e dovettero concedere ai propri avversari la maggioranza in entrambe le camere statali. I segreti del loro successo erano vari: non soltanto l’utilizzo dei migliori consulenti politici del Paese e una migliore organizzazione sul territorio, ma anche uno spietato uso del gerrymandering. Un esempio su tutti: la popolosa contea di Los Angeles, abitata da una fetta consistente della minoranza messicana, eleggeva un singolo deputato all’Assemblea statale, come la contea di Alpine, posta sulla Sierra Nevada e popolata solo da qualche migliaio di abitanti. A interrompere la pratica in California e in molti altri Stati fu la sentenza Reynolds v. Sims del 1964, relativa al caso appena citato e ad altri analoghi verificatisi nel resto del Paese. A scriverla, per ironia della sorte, fu Earl Warren, ex governatore della California e grande fan del gerrymandering fintanto che rimase in carica. Ma anche questo verdetto, che perlomeno obbligava alla creazione di collegi simili a livello demografico, non fermò la pratica. Anzi, la portò a nuovi livelli di creatività.

I casi più clamorosi hanno avuto luogo dopo il censimento del 2010: in quell’anno il forte astensionismo e la rabbia populista del Tea Party, un movimento conservatore di una classe medio-alta preoccupata dalle eccessive spese dell’amministrazione Obama, portarono al potere una nuova generazione di politici repubblicani, tra i quali il già citato governatore Scott Walker del Wisconsin, Rick Snyder in Michigan e Tom Corbett in Pennsylvania. Toccò loro il compito di ridisegnare la mappa dei loro stati. Il risultato è che alla salamandra di Gerry si unirono un cigno e un dragone a due zampe in Pennsylvania, un condor in Wisconsin e un piccolo serpente in Michigan. Mappe che in certi aspetti sono capolavori di astrattismo, con le loro forme fantasiose, come macchie di Rorschach. Questi distretti dagli strani contorni, però, non avevano lo scopo di delineare un soggetto in particolare, ma di concentrare nel minor numero possibile di seggi gli elettori scomodi, quali potevano essere gli appartenenti a minoranze etniche, i giovani bianchi istruiti e infine quelli più temuti, gli abitanti delle città. Questo spregiudicato modus operandi dei tre governatori repubblicani ha reso possibile un’agenda fatta di tagli al welfare e di forti limitazioni dei diritti sindacali, riuscendo nonostante ciò a vincere anche le elezioni successive. I sindacati e le altre forze politiche hanno deciso fosse meglio non lottare più contro queste leggi: come diceva qualcuno, “resistere non serve a niente”.

In realtà a qualcosa serve, basta solo scegliere lo strumento giusto, come un ricorso legale. Il 19 febbraio 2018 la Corte Suprema della Pennsylvania ha ritenuto incostituzionale la mappa disegnata dal governatore Tom Corbett nel 2011, fatto che ha provocato una serie di reazioni scomposte tra le fila repubblicane. Persino il presidente Trump si è lasciato coinvolgere: con un tweet ha invitato i repubblicani a resistere e a ricorrere anche alla Corte Suprema federale, se necessario. Quest’ultima ha respinto il ricorso repubblicano un mese dopo, avvallando quindi il disegno di una nuova mappa, più equa, per il voto a novembre. Una delle figure più prominenti del nuovo corso nazional-populista dei repubblicani, il segretario di stato del Kansas Kris Kobach, ha scritto il 30 gennaio scorso su Breitbart un pezzo che descrive le vere motivazioni del partito nel respingere la mappa con i nuovi distretti: l’odio nei confronti degli immigrati. Il censimento, secondo Kobach, non è abbastanza severo nel distinguere tra chi è cittadino americano e chi invece è un immigrato illegale, perpetuando uno dei mantra trumpiani: i democratici vincono grazie ai clandestini, ergo sono loro la minaccia da contenere. Sarebbe ideale, poi, ridurre gli spazi della democrazia, almeno secondo il pensiero implicito di Kobach.

È questa l’avanguardia del pensiero maggioritario all’interno del partito, quello Repubblicano, che nel 1856 era nato per sconfiggere il potere economico degli schiavisti del Sud. Adesso sono loro a voler togliere il potere elettorale a quante più persone possibile. Non soltanto con il gerrymandering, ma anche con altri mezzi: ad esempio rendendo più difficile ottenere un documento d’identità valido per il voto. Una mossa che di fatto cerca di escludere le minoranze dal suffragio, come del resto ha dichiarato il procuratore generale del Wisconsin. La democrazia americana si è trovata più volte in difficoltà, con dure restrizioni dei diritti di quelle categorie e con la costruzione di un sistema di sorveglianza di massa. Ma lo stress test a cui è ora sottoposta è senza precedenti. La crisi avviene a più livelli: dalla presidenza, ai singoli stati fino alle città, criticate apertamente da Trump per essere troppo morbide nei confronti dei migranti. E non ci sono chiavi di lettura sufficienti per capire se certi mali potranno essere risolti.