Lavoro, per i contratti a termine spazi ridotti agli accordi collettivi

Le interazioni del decreto legge dignità 87/2018 (legge 96) con la contrattazione collettiva vanno esaminate in una duplice prospettiva, guardando sia agli spazi per futuri interventi dell’autonomia sindacale sia alla sopravvivenza dei contratti collettivi preesistenti al decreto.
Con riferimento al primo punto bisogna subito dire che il decreto dignità lascia ben pochi spazi alla contrattazione collettiva.
Infatti le modifiche apportate dal legislatore alla disciplina del contratto a termine non contemplano alcun intervento della contrattazione collettiva. Il Jobs Act (con l’articolo 51, Dlgs 81/2015) aveva, invece, riservato all’autonomia collettiva, alimentata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, un’ampia possibilità di adeguamento delle regole legali alle specificità dei vari contesti (a tutti i livelli: nazionale, territoriale ed aziendale) ove avrebbero dovuto essere applicate.

Questa carenza riguarda, in particolare, il punto di più radicale cambiamento realizzato dal decreto dignità, cioè l’aver condizionato la validità del contratto a tempo determinato, nel caso di proroghe superiori ai 12 mesi e comunque fin dal primo rinnovo, non già a causali collegate a specifiche esigenze dell’impresa (come avveniva prima del Jobs Act), ma a causali sostanzialmente impraticabili (quindi false causali), con l’unica eccezione di quella prevista per la sostituzione dei lavoratori assenti.
L’obiettivo che il legislatore vuole realizzare è quello del drastico ridimensionamento del contratto a termine che oggi può essere utilizzato soltanto per la durata massima di 12 mesi (senza rinnovi per i quali scatterebbe subito la causale). Ma è illusorio ipotizzare che ciò costringerà le imprese ad assumere a tempo indeterminato, anziché a termine. Infatti, nel migliore dei casi, l’effetto sarà quello di una redistribuzione su più teste dell’attuale quantità di lavoro a termine, con l’aumento del tasso di velocità del turnover il che aumenta la precarietà del lavoro e incide negativamente sulle opportunità di trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato.
Un intervento così severo e repentino avrebbe dovuto, se non altro, suggerire al legislatore di lasciare alla contrattazione collettiva la possibilità di un adeguamento, almeno selettivo o temporaneo, alle nuove regole. Ma ciò non è avvenuto proprio perché il legislatore ritiene di aver imboccato la strada giusta per regolare i contratti a termine e, quindi, non deve essere consentita alcuna deviazione dalla corretta via, neppure quella negoziata con il sindacato.
Ciò implica che le modifiche alla nuova disciplina del contratto a tempo determinato – anche quelle finalizzate a consentirne un utilizzo oltre la durata legalmente praticabile dei 12 mesi, sia pure in presenza di temporanee esigenze dell’impresa – potranno essere realizzate soltanto attraverso i contratti collettivi di prossimità (aziendali o territoriali) previsti dall’articolo 8 della legge 148/2011 che consente di derogare alla disciplina legale (anche quella oggi vigente) delle assunzioni a termine.
Il decreto dignità, quindi, finirà per rilanciare (come già sta accadendo) i contratti collettivi di prossimità che, però, dovranno essere stipulati nel rispetto delle specifiche finalità che essi devono perseguire (indicate nel comma 1 dell’articolo 8), nonché nei limiti delle direttive comunitarie, in particolare quella 1999/70 in materia di contratti a termine. Per fare un esempio, quindi, una modifica sicuramente legittima – in quanto compatibile con la direttiva – potrà essere quella del limite posto dal decreto dignità alla durata di un unico contratto a termine. Durata continuativa che il contratto collettivo di prossimità potrà prevedere (anche attraverso le proroghe) senza necessità di causali andando oltre i 12 mesi legali.
Per quanto attiene alle modifiche apportate dal legislatore alla somministrazione di lavoro a termine, si registrano aperture più significative alla contrattazione collettiva derivanti sia direttamente dal decreto dignità sia dalla possibilità di valorizzare gli spazi già riservati alla contrattazione collettiva dalla normativa preesistente (il Dlgs 81/2015).
Il primo caso è quello del limite del 30% fissato dal decreto dignità al numero massimo di lavoratori con contratti a termine o in somministrazione a termine di cui un datore di lavoro può complessivamente avvalersi. In questo caso il legislatore consente la derogabilità del 30% da parte di qualsiasi contratto collettivo applicato dall’utilizzatore, anche di quello aziendale.
Ma il punto di maggior interesse si evidenzia in relazione alle nuove potenzialità dell’articolo 34, comma 2 del Dlgs 81/2015 che affidava e continua ad affidare alla contrattazione collettiva (nazionale o aziendale) applicata dalle Agenzie di somministrazione (e, quindi, non dall’utilizzatore) la competenza a disciplinare i “casi” e la “durata” delle proroghe del contratto a tempo determinato che l’Agenzia può stipulare con il lavoratore da somministrare all’utilizzatore.
La contrattazione collettiva nazionale del settore si è già avvalsa di questa norma per portare il numero delle proroghe del contratto a termine a sei, ma dopo il decreto dignità le prospettive di utilizzo dell’articolo 34, comma 2 si ampliano notevolmente, in quanto la contrattazione collettiva potrà intervenire a fronte della nuova disciplina legale delle proroghe del contratto a termine che sarebbe, altrimenti, applicabile anche alle Agenzie (ancorché con le modalità dell’articolo 2, commma 1-ter). In particolare sarà possibile, se non abolire le causali delle proroghe del contratto a tempo determinato del lavoratore somministrato, individuarne non solo il numero, ma anche i casi nei quali esse potranno essere concordate andando oltre le causali previste dal legislatore, nonché la durata massima delle stesse.