Quanto vale Cristiano Ronaldo? Stipendio, sponsor e tasse

Lo hanno chiamato l’affare del secolo. E già questo basta a comprenderne la portata. L’ ingaggio di Ronaldo non ha un paragone nè passato nè contemporaneo. Con il maxi compenso (30 milioni di euro netti per quattro stagioni con la Juventus) il fuoriclasse portoghese ha ottenuto qualcosa di impensabile soprattutto rispetto all’età: mai nessuno aveva nemmeno sfiorato una retribuzione monstre a quasi 34 anni. E questo è dovuto non soltanto alle prestazioni sportive ma a tutto ciò che rappresenta il «pianeta Ronaldo»: diritti d’immagine, sponsor e ingaggi. Sì perché la fama del fuoriclasse portoghese è ormai planetaria e in alcuni angoli (ricchi) del mondo lui è l’iconografia stessa del calcio. Questo ha portato la «Signora» a investire pesantemente su CR7 per altri quattro anni. Perché il valore economico di Ronaldo è qualcosa di unico e va ben oltre i risultati conseguiti sul campo: basti pensare che Adidas, sponsor tecnico di Real e Juventus, paga 70 milioni di euro agli spagnoli e 23 ai bianconeri. Rapporto di forze destinato a cambiare con l’arrivo di Ronaldo alla Juventus. Nel mondo del calcio però esiste ormai da anni una variabile rappresentata dai campionati dei paesi emergenti (Cina e Medio Oriente su tutti): in quei casi non è il valore assoluto del calciatore a prevalere ma la sua fama. Basti pensare che dopo l’ingaggio presso la squadra Hebei China Fortune, il calciatore più pagato al mondo è Ezequiel Lavezzi (detto il Pocho), argentino di 33 anni (con un passato nel Napoli e nel Paris Saint Germain) che adesso con i suoi 53,2 milioni l’anno guadagna più di Messi e Ronaldo.

Tra l’altro, In Italia, grazie a un assist del nostro sistema fiscale, Ronaldo non si dovrà preoccupare per le tasse (dopo i quasi 19 milioni patteggiati con il fisco spagnolo per la gestione dei suoi diritti di immagine dirottata su paradisi fiscali). Sui ricavi dai diritti di immagine, pagherà solo 100 mila euro grazie alla norma sui nuovi residenti fiscali introdotta dalla legge di stabilità del 2017, sui proventi esteri derivanti da investimenti immobiliari, dividenti e guadagni tramite operazioni finanziarie.

Il caso Federer

Dunque un campione è (anche) un investimento. A patto che sia un vincente di successo, il legame con lo sponsor può diventare addirittura un vitalizio. Almeno la vede così Uniqlo, il brand di moda low cost giapponese, parte del gruppo Fast Retailing, di proprietà di uno degli uomini più ricchi del Giappone, Tadashi Yanai, che ha fatto bella mostra sui campi di Wimbledon indosso a Roger Federer. Il più grande tennista di tutti i tempi (116 milioni di dollari in premi in carriera, alla data del 2 luglio) è stato eliminato ai quarti ma di fatto, grazie agli sponsor rimane il numero uno in assoluto: solo quest’anno ha guadagnato 85 milioni di dollari, incluso il nuovo contratto, battendo anche Cr7 (47 milioni col Real e un contratto da un miliardo con Nike). Tra i brand che sostengono Federer, Mercedes e Lindt hanno rinnovato alla fine del 2017, con Barilla il deal è stato chiuso a 40 milioni di dollari. Ma il vero colpo è stato l’accordo da 300 milioni di euro con Uniqlo: dieci anni di sponsorizzazione per lo svizzero che, a 37 anni da compiere a giorni, quasi sicuramente si ritirerà prima della scadenza dell’accordo. Particolare che non impensierisce l’azienda del Sol Levante, intenzionata a sfruttare non tanto i successi venturi di Re Roger, quanto la sua imperitura fama. Come? Per sfondare nei mercati occidentali e toccare quota 50 miliardi di vendite nel 2020. Con circa duemila negozi in 19 Paesi, Uniqlo manca però ancora in Italia, dove arriverà solo nel marzo 2019. I conti, per mister Yanai, potrebbero essere giusti: basti pensare che al solo annuncio della nuova partnership il titolo di Uniqlo è salito dell’1,9%, mentre quello di Nike, in una settimana, cedeva il 4%. «Un atleta come Federer è un brand di per sé: sponsorizzarlo, per un’azienda significa la possibilità di raggiungere più audience, quindi, aumentare il proprio valore riducendo il rischio dell’investimento», spiega Lidi Grimaldi, direttore esecutivo di Interbrand. Grazie a Uniqlo, stimano ancora gli analisti, una volta appesa la racchetta al chiodo, Federer finirà per guadagnare come ai tempi d’oro, quando vinceva uno dei suoi 20 titoli Slam. O addirittura di più. «Con questo tipo di contratti, i super atleti minimizzano a loro volta il rischio — prosegue Grimaldi —. Il processo di identificazione ed emulazione del pubblico, nel loro caso, non si ferma alle vittorie o alle classifica, ma va oltre: diventano benchmark positivi di per sé». E per i quali vale la pena stilare un contratto «a vita». Ma in pochi, persino tra i dieci che siedono nell’Olimpo dei più pagati atleti del mondo nel 2018 (li trovate nella classifica in pagina), possono «fruttare» quanto Re Roger.

Gli altri stellati dello sport: Messi e LeBron James

C’è per esempio Lionel Messi, il cui nome è così evocativo – e remunerativo – da aver spinto la costruzione di un parco a tema, il Messi Experience Park, che aprirà in Cina nel 2020. La «pulce» è legato per sempre ad Adidas. Ma guadagna comunque «solo» 27 milioni dagli sponsor. Il resto viene dallo stipendio (84 milioni), che quest’anno non è stato rimpolpato né dal bonus Champions né dai risultati del Mondiale. Anche tra i campioni del basket americano la voce sponsor conta spesso più dell’ingaggio, regolamentato dal regime della Salary Cap, il tetto complessivo degli stipendi per l’intera franchigia, che per la prossima stagione supera i 100 milioni di dollari. LeBron James, che ha firmato con i Los Angeles Lakers un accordo da 154 milioni di dollari in quattro anni, è di fatto il giocatore con il più ampio portafoglio di sponsor della Nba. Con lui si dice che la Nike abbia un accordo a vita di un miliardo di dollari; al «Baffo» si aggiungono Coca-Cola, Kia Motors, la catena di pizzerie Blaze, di cui è investitore della prima ora (ne possiede 17). Ha una casa di produzione per la tv e il web, la SpringHill Entertainment, e una media company. Possiede anche il 2% delle azioni del Liverpool, la squadra di calcio della Premier League arrivata in finale di Champions: la sua quota avrebbe un valore di 32 milioni di dollari secondo la tv americana Espn. Più che un campione, un’azienda. Che punta anche sulla filantropia: la sua fondazione ha investito 41 milioni di dollari per l’educazione di bambini disagiati e quest’anno aprirà una scuola.

Gli «intoppi» del doping

Certo, un accordo a lungo termine con un’atleta può anche rivelarsi un boomerang. E allora bisogna correre ai ripari. Così, nel 2012, Nike tagliò il cordone con il ciclista Lance Armstrong, che aveva confessato di essersi dopato per vincere il Tour de France. Nel 2016 la tennista Maria Sharapova, che prima della squalifica guadagnava 20 milioni di dollari grazie agli sponsor, perse Tag Heuer a Avon, ma mantenne Head ed Evian. Nike e Porsche, dopo un’iniziale esitazione, rimasero con lei. L’investimento sulla russa, soprattutto per l’azienda dell’Oregon, era stato massiccio: la supportavano da quando aveva 11 anni. Prima di buttare tutto all’aria, ci hanno pensato. E hanno compreso che Sharapova non è solo un’atleta, ma un simbolo, capace di resistere allo scandalo del doping. Due anni fa, il danno di reputazione causato dal tradimento della moglie è costato al golfista Tiger Woods il benservito di AT&T, Accenture, Gatorade e Gillette. Nike, ancora una volta, ci ha messo la faccia, continuando a produrre la linea di abbigliamento col marchio di Woods. Poco importa se l’atleta tra incidenti, operazioni, scandali, ha ripreso a giocare solo a marzo di quest’anno, guadagnando comunque 43 milioni con gli sponsor. «Il branding — spiega Grimaldi — che si tratti di azienda o sport, è un fenomeno destinato a crescere: perché in un mondo in cui siamo sovraesposti a stimoli e possibilità, rappresenta una sintesi che permette di scegliere in modo più semplice e veloce».

Il caso pugilato: guadagnare con le «borse»

Caso più unico che raro è quello di Floyd Mayweather, il pugile che si è ritirato imbattuto l’anno scorso dopo aver vinto l’ultimo incontro (il 50° che gli ha permesso di superare Rocky Marciano) che gli è valso, da solo, una borsa da 275 milioni di dollari, oltre che la «Money Belt», la cintura confezionata per l’occasione dalla WBC fatta di 3.360 diamanti, 600 zaffiri, 300 smeraldi e 1,5 kg di oro, il tutto avvolto in preziosa pelle di coccodrillo. Mayweather non è nuovo a simili performance: passerà alla storia per essere stato uno degli atleti più richiesti e lucrativi per gli eventi pay-per-view di tutti i tempi, in ogni sport. Non a caso si è classificato primo nella lista dei 50 sportivi più pagati sia di Forbes sia di Sport Illustrated nel 2012 e nel 2013, e ancora di Forbes anche nel 2014 e nel 2015, guadagnando, per il solo 2014, circa 300 milioni di dollari. Un campione straordinario pagato per le sue vittorie e i suoi incontri ma poco avvezzo agli sponsor, che l’anno scorso raggiungevano per lui la «risibile» cifra di 10 milioni di dollari l’anno. Adesso giura di essersi ritirato, ma sono in tanti pronti a scommettere che il suo ritorno sul ring dipenda solo dalla ricchezza della borsa in palio.