«Per non vedere più il bullo a scuola sono diventato cieco psicosomatico»

«Ho comandato al mio cervello di non vedere più cosa succedeva a scuola». Aveva appena 8 anni, frequentava la terza elementare e non trovava le parole per raccontare tutto. Così i suoi occhi hanno smesso di vedere. Non distingueva più i colori, restavano soltanto forme indistinte. Da quel momento è iniziato il suo calvario, ma anche il suo riscatto. E per lui non è più un problema parlarne. Andrea (così ha voluto che lo chiamassimo) oggi ha 12 anni e racconta la sua storia accompagnato dalla mamma.

Il migliore amico diventato peggior nemico

«In prima elementare avevo due migliori amici, ma uno di loro cercava in tutti i modi di allontanarmi dall’altro perché temeva che glielo portassi via — racconta con calma seduto ad un tavolino della scuola media —. Da una parte mi trascinava nel trio, dall’altra voleva escludermi, me ne faceva di tutti i colori». La storia è andata avanti per due anni e mezzo, sempre e solo a scuola, senza che le maestre si accorgessero di nulla. Una violenza più che altro psicologica, ripetuta e protratta nel tempo, a volte anche fisica. «Mi prendeva in giro pesantemente, mi derideva per i brutti voti, mi dava nomignoli — aggiunge Andrea —. Un giorno mi ha obbligato a stendermi a terra e tirare su le gambe, così mi sono dato una ginocchiata tagliandomi un labbro, un’altra volta mi ha spinto contro un armadio».

Andrea era soltanto un bambino, non riusciva a dare forma all’idea che il suo miglior amico fosse in realtà il peggior nemico. Una contraddizione a quell’età intollerabile. Gelosia, invidia, prepotenza quotidiane. Qualche compagno se ne era accorto, ma nessuno diceva nulla. Fino a quando un giorno di gennaio, a scuola, Andrea ha perso la vista. La madre è stata avvisata all’uscita dalle maestre. Immediata la corsa all’Ospedale Oftalmico, dove è stato escluso un danno agli occhi. Poi, la visita neurologica d’urgenza al Regina Margherita. «Si temeva un tumore al cervello, ma la Tac eseguita il giorno dopo ha escluso anche quello — racconta la mamma —. La perdita della vista, durata 10 giorni, era dovuta ad un pesante disagio psicologico». Questa è stata la diagnosi. Andrea è rimasto in ospedale circa 2 mesi, ricoverato nel reparto di Neuropsichiatria infantile. È riuscito a tirare fuori tutto, è stato molto bravo. Quando è uscito ha cambiato scuola ed è stato accolto all’Ic Tommaseo. Era alla fine della terza elementare. Una nuova classe, una nuova vita.

«Oggi sono cambiato — dice Andrea, che continua ad essere seguito dallo psicologo —. Sono riuscito a capire quello che è successo: lui si sentiva minacciato da me». Tanti dettagli di quella storia ormai li ha dimenticati. Segno che la sta superando, dicono gli psicologi. E parlando del suo ex compagno non parla di bullo, ma di carnefice. «Non lo odio, non lo voglio vedere morto per intenderci — ci tiene a precisare —. Ma ancora non riesco a capire il motivo di tanta cattiveria. In fondo l’ha avuta vinta lui, sono stato io a dover lasciare e ad andarmene».

La mamma avrebbe potuto denunciare la scuola che non ha riconosciuto la gravità della situazione, ma non l’ha fatto per evitare al figlio l’ulteriore stress di un processo. Si sente in colpa per non aver capito prima cosa stesse succedendo. «Qualcosa mi raccontava, ma sembravano i soliti litigi tra bambini — spiega —. Quando li vedevo in casa, alle feste di compleanno, sembrava tutto normale». Ha anche avuto un confronto con i genitori di quel bambino che lei definisce un «angelo vestito da diavolo», ma non hanno voluto riconoscere nulla respingendo ogni accusa. Nel frattempo Andrea ha però trovato un modo tutto suo per farsi giustizia. Sta diventando uno dei «mediatori dei conflitti» tra pari della sua scuola, all’interno del progetto «Dallo scontro all’incontro: mediando si impara» promosso dal Garante Nazionale dell’Infanzia. L’anno scorso è anche andato a Roma. Sogna di diventare giornalista, ogni giorno legge tutti i quotidiani online, ha una predilezione per la politica e ha già cominciato a scrivere i primi articoli. «Sono stato scelto come mediatore per la mia sensibilità e anche per quello che mi è successo — dice con una punta di orgoglio —. Si impara a mediare, a riconoscere le ragioni di uno e dell’altro». Nei casi di conflitti gravi interviene il mediatore professionista, ma per quelli più semplici bastano i bambini tra loro. Andrea ha già risolto il caso di due compagni che non facevano altro che litigare. Dice che ora hanno smesso. E sorride.