Ma alla fine il caffè fa bene o male? Cosa sappiamo dell’acrilammide

Risale a qualche mese fa la notizia che Elihu Berle, un giudice della corte suprema di Los Angeles, ha stabilito l’obbligo di apporre nell’etichetta delle confezioni di caffè la dicitura “contiene sostanze che possono nuocere alla salute e provocare anche il cancro” perché fonte di acrilammide​, o ammide dell’acido acrilico, un noto contaminante alimentare altamente solubile in acqua, dall’odore scarsamente percettibile (se inalato) e insapore (se ingerito).

La decisione del giudice californiano si è basata su numerose osservazioni sperimentali precliniche, come affermato di recente dallo statunitense National Cancer Institute. Tuttavia, negli studi preclinici di riferimento, gli animali sono stati esposti a concentrazioni di acrilammide da 1.000 a 10.000 volte più alte di quelle a cui gli uomini sono normalmente esposti, come precisa la prestigiosa American Cancer Society.

Sulla base di studi condotti su colture cellulari e su animali di laboratorio, mentre si attendono conferme nell’uomo da parte di studi clinici randomizzati, la International Agency for Research on Cancer (IARC), che è parte dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità, ha già classificato l’acrilammide come un “probabile cancerogeno per l’uomo” (classe 2A); mentre, nel 2014, il National Toxicology Program (NTP), a cui partecipano diverse importanti agenzie governative statunitensi, tra cui il National Institute of Health (NIH) e la Food and Drug Administration (FDA), classifica l’acrilammide come una sostanza “ragionevolmente prevista per essere cancerogena per l’uomo“. Infine, l’acrilammide è definita un contaminante alimentare “potenzialmente cancerogeno per l’uomo” anche da parte dell’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti d’America (EPA).

L’Europa e l’acrilammide

E l’Europa? Già nel 2015, l’Autorità Europea per la Sicurezza degli Alimenti (EFSA) aveva istituito una commissione di esperti per giungere a una regolamentazione dei livelli di acrilammide in tutti gli alimenti, esclusivamente sulla base di studi condotti sulle cellule e sulle cavie che hanno dimostrato come l’esposizione all’acrilammide e al suo metabolita, la glicidammide, siano cancerogeni poiché danneggiano il DNA. Un’iniziativa intrapresa in modo precauzionale sebbene non ci siano ancora chiare evidenze nell’uomo di cancerogenicità da acrilammide veicolata con gli alimenti o con l’acqua.

Sebbene nuovi studi urgano per definire la relazione acrilammide-cancro nell’essere umano, la neurotossicità da esposizione ad alte dosi di acrilammide, soprattutto negli ambienti di lavoro, è maggiormente supportata da evidenze cliniche. Al fine di meglio comprendere le motivazioni alla base della sentenza di Los Angeles, è giusto riconoscere le sorgenti alimentari di acrilammide, le precauzioni necessarie per prevenire potenziali danni alla salute pubblica, ma anche per gestire allarmismi fuorvianti.

Che cosa è l’acrilammide

L’acrilammide, per le sue caratteristiche chimico-fisiche, difficilmente contamina l’aria, è utilizzata per la potabilizzazione dell’acqua (fino alla dose di 1mg/L) e si forma negli alimenti mentre sono esposti a temperature superiori ai 120 gradi, che favoriscono l’interazione tra zuccheri e proteine attraverso la nota reazione chimica di Maillard.

La frittura, la cottura al forno e alla griglia, o la torrefazione, hanno maggiori probabilità di generare acrilammide, mentre la bollitura, la cottura a vapore, o con il forno a microonde, hanno meno probabilità di farlo. Tempi di cottura più lunghi e cotture a temperature più elevate possono aumentare ulteriormente i livelli di acrilammide nei cibi che poi saranno ingeriti.

I livelli di acrilammide che si accumulano in un alimento durante la cottura dipendono anche dal pH (il pH acido rallenta la formazione di acrilammide), dall’attività dell’acqua (un indice che si riferisce alla quantità d’acqua dell’alimento disponibile per reazioni chimiche e biologiche) e soprattutto dalle concentrazioni dei suoi principali precursori, come l’amminoacido asparagina e gli zuccheri riducenti (ad esempio: glucosio, fruttosio, galattosio, maltosio e lattosio) .

Quanto acrilammide c’è nel caffè?

I livelli di acrilammide nel caffè dipendono principalmente dai livelli di asparagina presenti nei chicchi verdi del caffè (30-90mg di asparagina ogni 100g di chicchi). Ma non tutti i chicchi sono uguali. La varietà Arabica di caffè contiene livelli di asparagina più bassi di quelli della varietà Robusta, mentre i chicchi immaturi hanno un contenuto di asparagina molto più alto dei chicchi maturi. Pertanto, lo sviluppo di piante di caffè con bassi livelli di asparagina e l’eliminazione di chicchi immaturi potrebbe essere la prima soluzione al potenziale rischio da acrilammide da caffè.

Il caffè viene generalmente tostato a temperature comprese tra i 220 e i 250 gradi, mentre il tempo e la velocità della tostatura giocano un ruolo importante sui livelli di acrilammide nel caffè, ma anche sulle sue proprietà organolettiche (come il colore, l’aroma e il gusto). Una modifica delle procedure di tostatura potrebbe ridurre la formazione di acrilammide, ma il gusto del caffè si corromperebbe fino a renderlo imbevibile.

Sebbene i livelli di acrilammide aumentino all’inizio della fase di tostatura (fino a 7 mg/kg), essi si riducono bruscamente verso la fine del ciclo di tostatura fino a raggiungere livelli di 230 (chicchi di varietà Arabica) o 500 (chicchi di varietà Robusta) μg/kg; mentre, i sostituti del caffè (come l’orzo solubile o la cicoria) e il caffè istantaneo o solubile possono contenere livelli di acrilammide di 1500 e 700 μg/kg rispettivamente. Tuttavia, i livelli di acrilammide possono ulteriormente ridursi col il passar del tempo dalla sua tostatura, durante la sua conservazione o stoccaggio a temperatura ambiente.

Meglio l’Arabica della Robusta

Il metodo di preparazione del caffè influenza significativamente i livelli di acrilammide presenti nella bevanda finale .  Una tazza (30ml) di caffè espresso,  preparata a casa ad esempio, contiene livelli di acrilammide tra 0,32 e 1,76μg. Contenuti analoghi di acrilammide sono stati dosati in tazze di caffè prodotto con capsule o miscele decaffeinate. A parità del grado di tostatura, una tazza di caffè della varietà Robusta contiene circa il doppio della quantità di acrilammide (1,71-2,92 μg) contenuta in una tazza di qualità Arabica (0,87 e 1,52 μg). Pertanto, sarebbe preferibile bere caffè prodotto da miscele contenenti un’alta percentuale di varietà Arabica così da ingerire minime quantità di acrilammide.

Nonostante il caffè sia l’unico alimento che, a pena di sanzioni, dovrebbe subito munirsi (almeno negli Stati Uniti) di un’etichetta simile a quella già utilizzata per le sigarette, i più alti livelli di acrilammide alimentare sono stati dosati illo tempore nelle patate e patatine, fritte o cotte al forno, e nei prodotti da forno, ingeriti anche dai bambini (che potrebbero essere maggiormente a rischio), ma quest’ultima notizia sembrerebbe essere ancora lontana dalle pagine dei quotidiani. Invece, l’acrilammide non è dosabile, se non in tracce, nei prodotti lattiero-caseari, nella carne e nei prodotti ittici.

Coincidenza vuole che la sentenza del giudice Berle arrivi mentre le principali case produttrici italiane di caffè si preparavano a fronteggiare la scalata in Italia (nono Paese europeo consumatore di caffè) da parte del colosso americano Starbucks, suscitando un certo disappunto da parte della National Coffee Association,  l’associazione che raggruppa i produttori americani di caffè. Di lì a poco, l’11 aprile 2018, è entrato in vigore, a tutela del consumatore, il Regolamento europeo n. 2158/2017 per normare le soglie accettabili di acrilammide in tutti gli alimenti, pur non prevedendo alcuna sanzione per le aziende che non le rispettino. E’ probabile che la mancanza di sanzioni sia dovuta al fatto che, alla luce delle conoscenze attuali, non si possa parlare di dose “sicura”, bensì di una dose con effetto “trascurabile”, che è pari a 1 microgrammo al giorno per un uomo che pesa 60 chili.

I Paesi nordeuropei sono i più esposti

Da sempre, si sa, le regole sono figlie della statistica fino a prova contraria. Se si considera che i primi consumatori di caffè in Europa siano i Finlandesi (11kg/anno pro-capite), si può ben intuire come il contributo del caffè all’esposizione all’ acrilammide raggiunga il 40% nei Paesi del Nord-Europa, ma non in Italia (5,6kg/anno pro capite), dove le fonti maggiori di acrilammide alimentare potrebbero essere altre (ad esempio, le patatine fritte in busta, i bordi bruciacchiati di pizze e toast e i cereali per la colazione, soprattutto quelli ricchi di fibre perché più ricchi di asparagina).

Se non esistono ancora studi clinici che stabiliscano una relazione certa tra l’ingestione di caffè e l’insorgenza del cancro o di danni neurologici, una metanalisi di ben 36 studi clinici randomizzati  durante i quali sono stati arruolati 1.279.804 partecipanti ha dimostrato che il consumo da 3 a 5 tazze di caffè al giorno si associa ad una maggiore protezione del cuore, senza aumentare il rischio di aritmie cardiache, grazie alla presenza nel caffè di ben altri composti chimici, diversi dalla caffeina, come l’acido clorogenico, le chinidine, le lignine e la trigonellina. Ma questa è un’altra storia che pochi conoscono e andrebbe raccontata.